Storie di Pizzica Pizzica

Internet è uno strano mondo, in cui le affinità elettive si intrecciano e percorsi apparentemente lontani si scoprono paralleli e quasi tangenti. Due persone vivono su mondi vicinissimi e probabilmente sono per molti anni a un passo da conoscersi e incontrarsi. Poi a un certo punto succede qualcosa e finalmente, si incontrano.
Questa è la storia di come sono arrivata a conoscenza di Pizzica Pizzica, il primo libro illustrato di Hayley Egan e di come questo libro è scritto e disegnato e insomma di cosa ne penso.
Faccio il giro largo, mettiamoci comodi.
Tra i tanti blog che seguo, c’è quello di Bauhauswife. È di una signora canadese, non molto più vecchia di me, con sei figli e una vita pazzesca. Pazzesca nel senso che nel bene o nel male, per me è impossibile restarle indifferente. Questo mi piace molto e mi fa sempre pensare, i libri che consiglia e le cose che scrive non sono mai banali. Credo di averne già parlato, non mi ricordo. Ci sono arrivata mentre mi stavo preparando a partorire l’Infanta e da lì non ho più smesso di leggere quello che pubblica.
Un bel giorno, recensisce il libro di Hayley. Ho già detto che quello che scrive Yolande Clarke, per quando spesso bizzarro e un po’ sopra le righe, non è mai banale?
Quindi mi incuriosisco. Inseguo il libro fino al sito della sua autrice e lo ordino. Nel frattempo, cominciamo a scambiarci mail e poi diventiamo amiche su Facebook. Iniziamo a parlare o meglio a scriverci. Viene fuori che abbiamo la stessa età, frequentavamo la stessa città, Siena, negli stessi anni, che conosce benissimo la città dove sono nata e cresciuta, che conosce una mia ex compagna di liceo, che il padre dei suoi figli è italiano, è pugliese, è un etnomusicologo, ovvero praticamente è un antropologo che si occupa di musica, e io ho studiato antropologia e adoro la Puglia, perché la migliore amica di mia nonna era pugliese e le famiglie sono sempre state mischiate e anche se siamo toscani abbiamo sempre avuto questa forte influenza di tacco … Ok sto divagando. Insomma, viene da chiedersi come abbiamo fatto a non incontrarci di persona, o comunque prima.
Internet è uno strano mondo per davvero.
Fatta questa doverosa premessa, Pizzica Pizzica è un libro che mi è piaciuto tanto per molti motivi, e spero che quando l’Infanta sarà in grado di farsi leggere una storia stampata su fogli normali – al momento afferra e strappa ogni pezzo di carta che le capita per le mani – e non cartonati, piacerà anche a lei.
Intanto, è un libro bilingue.
I libri bilingui sono più unici che rari (provate a chiederne uno in una libreria qualunque per credere – di Milano, non di una sperduta valle tibetana) e di certo non c’è bisogno di me per dire quanto l’esposizione alle lingue straniere prima si comincia e meglio è.
Poi, è scritto bene, illustrato bene, stampato bene.
So che la mia maestra delle elementari si sta rivoltando nella tomba per queste ripetizioni da matita blu, ma come descrivere una cosa ben fatta senza rovinarvi la sorpresa di quando la sfoglierete e annuserete e la avrete tra le mani?
Pizzica Pizzica non è molte cose. Intanto non è una favoletta morale: ha molti livelli di lettura che portano la storia, nella sua semplicità, a parlare di tante cose: di musica, di guarigione (profonda e vera e personale e interiore) e secondo me anche di famiglia, di comunità.
Non è un libretto patinato, la carta è vera e porosa e piacevole da tenere tra le mani, non puzza di plastica ma sa di cellulosa buona e inchiostro. Le illustrazioni sono belle e ricche senza essere eccessive, sono di facile lettura ma piacevoli anche per gli adulti, mi ricordano i classici della mia prima infanzia, Eric Carle su tutti.
Se questo non bastasse, è una produzione indipendente, autofinanziata dal basso, libera e selvaggia proprio come piace a me.
Inutile dire che non vedo l’ora di sapere che cosa ne penserà l’Infanta.
Il mio spassionato consiglio è di procurarvene una copia.
E farmi sapere cosa ne pensate.

Riflessioni post-femministe: lettera a mia mamma

Mi ero ripromessa di scrivere una risposta al post di mia mamma, ma la vita e le mazzate prese dal Babbofamilias mi hanno momentaneamente distratto.
Come sapete, tutto è bene quel che finisce bene.
Questo è un post didascalico, noioso, pedante e molto molto personale. Siete avvertiti. Continua a leggere

Letture: Naomi Aldort

Una premessa. 
La sottoscritta è leggermente ossessiva quando si tratta di ansia da prestazione e capire “come funziona”. Dal nonno materno, frequentato troppo assiduamente negli anni dell’imprinting, ho ereditato una passione smodata per i manuali, le ricette, i foglietti illustrativi e le istruzioni (a volte dette “distruzioni”: e ci sarà un perché) in generale.
Uno dei modi in cui affronto un problema senza affogare nell’ansia, dunque, è cercando di capire come funziona il tutto in questione, possibilmente leggendo fiumi di parole sull’argomento, siano esse su carta stampata o su internet. Che queste parole vengano poi messe in pratica, è secondario. Trascorro ore e ore leggendo, con il risultato che spesso, nel tentativo di coprire tutto lo scibile umano su un argomento, emergo più confusa e frastornata di prima, interiorizzo e poi faccio comunque un po’ come viene viene. Babbofamiliae si rifiuta di partecipare a tale delirio bibliografico, laconicamente afferma “che si potrebbe semplicemente seguire il buon senso” promettendo di effettuare le sue letture in un futuro prossimo, cosa che puntualmente viene rimandata. Lui è contento con il buonsenso e io faccio il topo di biblioteca per tutti e due, e poi gli passo il compito facendogli i riassunti nei momenti in cui potremmo che ne so, guardarci intensamente negli occhi e dirci paroline romantiche. 

Affacciandomi alla maternità, dunque alla genitorialità, non potevo esimermi dalla pratica succitata, ovvero affrontare una congrua quantità di letteratura, sia cartacea che internautica. Sono arrivata a Naomi Aldort attraverso uno dei blog che seguo, Bauhauswife. Bauhauswife è una signora che abita in un gelido angolo del Canada, ha quasi sei figli e pochi anni più di me. Ha una vita molto più radicale della mia e scrive cose a parer mio decisamente sensate sull’argomento bambini-decrescita-parto naturale-arte-vita. Tra le letture che recensisce e consiglia nel suo piccolo Amazon-shop, c’è anche “Raising your children, raising yourself”.
Fidandomi, l’ho comprato e l’ho letto. E ho fatto bene.
Naomi Aldort è una psicologa, ha un dottorato di ricerca che non guasta mai e diverse pubblicazioni all’attivo. Insomma non è la prima arrivata nel suo campo.
Il libro propone un ascolto aperto e maturo dei bambini, di trattarli come pari – ma senza esagerare -, di leggerne le angosce e le gioie con serenità, di lasciare che esprimano le emozioni senza sentirsi in pericolo. Spiega perché il bambino ha sempre ragione a comportarsi come si comporta, perché non ha senso dire “no” quando ci verrebbe da dire “no”, ma senza che la situazione degeneri in una specie di giungla selvaggia senza regole né ragioni, e in generale come avere un atteggiamento rispettoso dell’individuo che è la nostra prole, anche se in formato ridotto.
Suggerisce anche di essere indulgenti e gentili con sé stessi, di ritagliare degli spazi protetti in cui esprimere le nostre emozioni e i nostri malesseri senza riversarli sui figli. Dà anche ottimi consigli su come portare avanti un ménage familiare senza troppi strappi.  Il tutto usando le armi dell’autoironia, della leggerezza, del non prendersi troppo sul serio e di vedere le cose in una sana prospettiva. E anche degli esempi pratici, che per me che sono toro con una quantità mostruosa di valori capricornini, quindi irrimediabilmente pratica e calata nella realtà, aiuta infinitamente la comprensione.
Mi è piaciuto molto. Chissà quanto tempo passerà prima che lo traducano in italiano.
L’autrice è anche un’ottima oratrice, i suoi video si trovano su youtube e se capite l’inglese, ve ne consiglio la visione.
Nonostante la mia unica figlia abbia solo poco meno di quattro mesi, la lettura è stata illuminante e mi ha molto pacificato nei confronti di alcuni comportamenti a me altrimenti incomprensibili, delle mie reazioni automatiche e poco sensate, frutto di un vissuto in cui la povera Infanta c’entra poco. Crescere i propri figli per crescere noi stessi. Cosa potevo chiedere di meglio?
Vedremo come va nei prossimi anni.

Storie di Feed

Mentre aspetto che Paterfamiliae torni dal lavoro per pranzare insieme, sono su facebook che cazzeggio per riprendermi dall’invio di un curriculum a un’azienda, il primo dopo la nascita dell’Infanta, che dorme, e rivelo dell’esistenza del blog della Materfamiliae alla Nonnafamiliae, che sarebbe la mia Mater. È così che funziona, con mia mamma non riesco a tenere nemmeno un cece. Ci parliamo su facebook e skype e whatsapp non solo perché lei è una signora hig-tech, ma soprattutto perché abitiamo lontane e abbiamo un certo pudore delle conversazioni telefono, che tra l’altro ci frigge anche le orecchie.
Tempo due secondi, dopo aver cliccato sul link, mi dice “mettici i feed” io, rivelando la mia incompetenza da bloggher  in erba rispondo “i feed?!?” “I pulsantini per condividere” io “… ma lasciamo che la cosa abbia un andamento naturale” (insomma facciamo finta di essere ancora nel 2005, prima di facebook e di tutto il resto, quando ero giovane e sgarzulina) e lei “scrivi per essere letta, giusto?” io le rispondo con una delle faccine di facebook che rappresentano un piccione perplesso.

La Nonnafamiliae è una donna estremamente intelligente, dotata di un cervello fino e di una logica infallibile, anche se lei sostiene di essere illogica (e ci frega tutti). Stando alle premonizioni astrologiche, mia figlia le sarà molto affine. Insomma sono rovinata.

Vado a cercare di capire come si mettono i feed.

Se potessi, lo faresti e io lo so.

Arrivo un po’ in ritardo, come è per me consuetudine. Ci sono state di mezzo un po’ di cose e anche il primo post di un nuovo blog ha dovuto aspettare. La mia vita ultimamente è fatta così, di attese e lunghe lavorazioni. Vado un po’ a ruota libera e sicuramente fuori tema, ma è da un po’ che voglio dire queste cose a voce alta.

Su Facebook seguo un blog femminista, “un altro genere di comunicazione”.
È un luogo di confronto interessante e che propone uno sguardo critico su molteplici argomenti che riguardano, come dice il titolo, il genere e la comunicazione.
Questo giro viene presa in considerazione la recente campagna a favore dell’allattamento che è uscita un po’ ovunque sul web: http://projectbreastfeeding.com/

L’autrice, Enrica, dice: carina l’iniziativa, ma il maschio oppressore è sempre in agguato. E lo stesso, a grandi linee, dicono i commenti.
Il post è questo.
Leggendo l’articolo, sembra proprio che l’autrice non abbia mai allattato, non abbia figli, non abbia mai avuto un/una partner amorevole e disposto/a all’ascolto. Non dico che chi non fa un’esperienza non possa parlare della stessa esperienza altrui. L’empatia e la capacità di immedesimarci esistono per una ragione. Ma mi succede spesso, quando leggo gli interventi di queste autrici, seppur interessanti, di avere questa sensazione di compartimenti stagni, di maschi contro femmine, di esclusione e ghetto, di avere voglia di dare un giudizio tranchant per il gusto di farlo e perché cogliere le sfumature è sempre più complicato.

Partendo dal presupposto che nessuno può prendersi la libertà di decidere sul corpo di qualcun altro, mai e in nessun caso e a maggior ragione quando si tratta di un corpo di donna e si sta parlando di maternità, è pur vero che viviamo in società, gli uni vicini agli altri e che i consigli non richiesti, specialmente sui temi più delicati, sono all’ordine del giorno. Tra tutta questa gente che fa prendere aria alla bocca dicendo “dovresti fare così” “dovresti fare cosà”, ritengo che il mio compagno, sia uno dei pochi a cui posso permettere di avere un’opinione e pronunciarsi sul mio corpo, su quello che succede dentro e fuori questa casa che abito almeno temporaneamente – del resto siamo solo in affitto, come scrive la Szymborska. Questo pronunciarsi, avere voce in capitolo, possibilità di discutere e parlare non è gratis. Si paga con il rispetto e l’ascolto, con l’amore. Del resto, a conti fatti, al di là delle visite mediche sporadiche o di situazioni particolari (come il parto tanto per citarne una), è l’unico che ha il mio permesso di accedere, di toccare, di guardare, che condivide la quotidianità e l’intimità. E per me vale lo stesso nei suoi confronti. La nostra è una comunicazione organica, talvolta non verbale, profonda, che comporta osservazione e sensibilità reciproca. Non sto idealizzando la mia relazione: ma posso dire con ragionevole certezza che mi impegno parecchio a tenere aperti i canali di comunicazione. Sono fortunata? Benedetta? Non so. Di fatto nel quotidiano questo di traduce nel fatto mi sbatto parecchio, mi metto in discussione e sollevo questioni tutti i santi giorni, esponendomi al confronto e al conflitto a viso aperto e mettendo sul piatto i miei disagi, a volte a discapito di una supposta (ihihihi) serenità familiare.

Tornando a noi, io allatto e il mio compagno mi ha detto proprio queste parole, pari pari: Se potessi, lo farei. Non ho sentito nessun paternalismo nelle sue parole, nessuna imposizione, ma un semplice e accorato desiderio di cura per la sua bambina e anche una punta d’invidia perché io posso e lui no, oltre alla voglia di sollevarmi dal fatto che a volte fatico. Su “Un altro genere di comunicazione” si parla moltissimo di maternità, spesso scagliandosi contro quella che viene spesso definita “la retorica della naturalità della maternità”, o della “mistica” della maternità. Dopo averla provata sulla mia pelle, dopo anni di pratiche di introspezione, terapie e meditazione di vario genere, posso sinceramente affermare che la maternità È una delle esperienze più profonde e mistiche che ho mai fatto nella mia vita. Mi si potrà rispondere che è questione di vissuto, di inclinazione personale, di aspettativa ovvero di profezia che si auto avvera. Eppure… È stato così. La mia esperienza va a alimentare la retorica di una maternità mistica e naturalizzata? Ovvero una maternità in cui il rispetto per se stesse, l’ascolto profondo di sé e dell’infante e il coraggio di fare esattamente quello che sentiamo siano la priorità? Ne sarei molto felice.
Direi che c’è bisogno di una buona dose di re-invenzione della genitorialità in questo senso. Certo, non vivo nel mondo delle favole e mi sono guadagnata le mie posizioni: ho letto una dozzina di libri, innumerevoli articoli, ho parlato, discusso, litigato, mi sono consultata con specialisti del parto e dell’allattamento, altre mamme, mia madre, mia nonna, il mio partner, terapisti vari, ho fatto una primal, ho guardato documentari e trascorso ore e ore a meditare e riflettere su cosa fosse giusto per me e rispettoso nei confronti della mia bambina, cercando di imparare dagli errori altrui e di fare la pace con il mio vissuto, con il fatto che non sarò una madre perfetta, sarò una madre “sufficientemente buona”, anche se la maternità è una delle poche cose in cui avrei davvero piacere di eccellere in vita mia. Insomma mi sono tolta la pelle, ma come spesso succede, dopo tale processo adesso sto meglio.

Come madri, come donne, siamo costantemente sotto i riflettori del giudizio altrui, estranei o meno, che spesso (ma non spessissimo, almeno nella mia esperienza: sarà che mostro troppo i canini?) si permettono di commentare e dare consigli. Evitando la trita distinzione tra maschi e femmine, mi viene difficile non ascoltare la persona a me più prossima in questa avventura, il padre, il partner.
Apriamo a una maternità e una paternità che possano dialogare e confrontarsi profondamente, per me è questo è il senso della campagna, che forse non è stato colto del tutto.
Se ci sforzeremo di farlo, i risultati parlano e parleranno da soli.